Fabrizio Ardito
La montagnaterapia
Espressonline, 25 marzo 2002

Camminare in montagna, arrampicare su ripide pareti, dormire in rifugio. Dopo anni di sperimentazione, di dibattiti e di tentativi, queste sono le medicine per piccoli gruppi affetti da disturbi mentali scelte dalla Asl Rm E di Roma. Animatore dell'esperienza è Giulio Scoppola, psicoterapeuta, psicologo e, ovviamente, istruttore di alpinismo del Club Alpino Italiano. «Credo che quella che abbiamo denominato montagna-terapia», spiega Scoppola, «Possa trovare posto accanto ad altre metodiche cliniche che popolano l'affollatissima galassia delle terapie nel campo psicologico psichiatrico. Come la musicoterapia e l'hyppoterapia, solo per fare due esempi». La montagnaterapia si svolge portando a camminare in montagna piccoli gruppi di pazienti affetti da problematiche psicotiche autistiche, da schizofrenia e da problemi cognitivi. «In montagna, la mente ed il corpo si confrontano con l'ambiente», continua Scoppola: «Abitare spazi non modificati dall'uomo rappresenta una preziosa opportunità per rendere dinamica la mente e il corpo di malati psicotici schizofrenici. In più, camminando o dormendo in un rifugio, le differenze si annullano e ci si sente uguali a tutti gli altri». In questo ambiente, gli operatori possono utilizzare coppie di elementi opposti tra loro: vasto e limitato, caldo e freddo, linee continue e linee spezzate, respiro affannato e regolare. A Roma, di montagna-terapia si discute da qualche anno, grazie alle esperienze della Asl Rm E e della Comunità Terapeutica Montesanto, che nel 1997 ha dato vita al suo piccolo club alpino interno composto da pazienti e operatori. «In montagna, allo stress cronico interno - il nucleo traumatico o la parte mancante o fratturata della mente spesso non più consapevole - viene sovrapposta la presenza di potenziali fonti di stress sensoriali e psicologici», spiega Dino Ermini, educatore della comunità: «Come la paura di scivolare, del maltempo, della verticalità che però possono essere memorizzate e ricategorizzate e avere così un valore positivo».

Le prime esperienze in questo campo risalgono agli inizi degli anni '90, quando l'associazione francese Moi-je di Mezières iniziò il suo lungo viaggio in montagna con i propri pazienti grazie all'idea e all'entusiasmo di un infermiere. In Italia è stata la Fondazione Emilia Bosis di Bergamo ad aprire la via, inserendo tra le attività di riabilitazione la scoperta e la frequentazione della montagna. Per poi allargare il campo al progetto Montagna Solidale che, dal 1997, ha portato operatori e pazienti tra le montagne del Nepal, sulla vetta del Monte Rosa, a un passo dalla vetta del Monte Bianco ed alla base del Cerro Torre in Patagonia. Lo scopo, ovunque, è lo stesso. «Se osserviamo la città e l'ambiente dove viviamo e lavoriamo, con la continua sovraesposizione a rumori, luci e relazioni», spiega Scoppola, «possiamo capire che la montagna-terapia nasce e si appoggia alla naturale necessità dell'uomo, sano prima ancora che malato, di ritrovarsi, rispecchiandosi in luoghi naturali che da sempre gli sono stati propri. Dove la complessità degli stimoli cittadini cede il campo alla limitatezza di alcuni elementi: la vetta, il rifugio, l'alpeggio, il pascolo, dotati di grande intensità evocativa e soprattutto di uno spazio sgombro da relazioni temute, da riempire con nuove memorie e nuovi affetti».

Dopo gli anni della sperimentazione, oggi per la montagnaterapia è giunto il momento della codificazione e della definizione di programmi terapeutici veri e propri con indicazioni e controindicazioni. Infatti esiste il rischio che esperienze di grande bellezza e intensità possano portare ad un crollo, se non accuratamente gestite, una volta che il paziente torna alla sua vita di tutti i giorni. «Dobbiamo stare molto attenti a non creare aspettative finché non sarà stato definito un protocollo terapeutico sicuro», sottolineano per questo Scoppola e Ermini. Per il nuovo sviluppo, il gruppo di lavoro sulla montagnaterapia, al cui interno lavorano volontari del Club Alpino Italiano, operatori dei dipartimenti di salute mentale e dell'area interdisciplinare di psicosomatica della Asl romana, si è allargato al confronto con le esperienze di altre zone della città e di altre regioni. Con lo scopo di fondare un'associazione di operatori in grado di fornire un vero e proprio servizio terapeutico collaudato agli utenti. Che potrebbe avere anche uno sbocco lavorativo per gli stessi malati. Infatti tra i progetti di Scoppola e soci c'è quello di ottenere a livello sperimentale la gestione di un rifugio sullemontagne dell'Appennino, da far restaurare e gestire ai pazienti, che potrebbero anche occuparsi del trasporto dei carichi, dell'ospitalità, della segnalazione e manutenzione di sentieri. «Quello che stiamo facendo vuole essere tutto il contrario del business immobile che ruota attorno ai malati di mente», dichiara Scoppola: «l'obiettivo è quello del lavoro vero. Che viene subito dopo la grande scoperta di sé in montagna». In cordata con i loro accompagnatori, i pazienti si rendono conto di essere una parte importante della realtà che scorre. Che le proprie azioni possono salvare se stessi e gli altri. Che il loro mondo potrebbe non terminare all'interno delle pareti di una comunità cittadina.

Tratto da: www.espressonline.kataweb.it

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