Giornata Culturale del Club Alpino Italiano sulla “Montagnaterapia”
Centro di Formazione per la Montagna del CAI - “B.Crepaz”, Passo Pordoi,
16 e 17 settembre 2006

Giulio Scoppola
RAGIONIAMO SULLA MONTAGNATERAPIA

Ragionare, cioè darsi il tempo per peregrinare, vagabondare intorno ad un argomento, vuol dire guardare con attenzione l’oggetto del ragionamento per conoscerlo meglio; esattamente come si esplorano i differenti versanti di una “nuova” montagna per poi salirla.
Il tema della “montagnaterapia” infatti può ben essere paragonato ad un versante ancora poco esplorato della nostra montagna.

Il Club Alpino Italiano sta dunque maturando la consapevolezza di come far giungere la montagna (cioè il mondo della montagna, le sue potenzialità, la sua cultura …) a quelli che non accedono normalmente ad essa: persone con problematiche fisiche psicologiche o sociali; bambini, ragazzi ed adulti che non hanno avuto la possibilità di utilizzarla come strumento educativo.

Mi vengono in mente le esperienze che negli anni ’70 facevamo nell’ambito dello scoutismo con i bambini non-vedenti di un istituto romano, che accompagnavamo alla scoperta dell’ambiente naturale descrivendo e toccando gli alberi e fungendo per loro da occhi “sostitutivi”. Alla fine delle attività annuali constatavamo come tutto ciò si traducesse in una recuperata stimolazione psicosensoriale, che credevamo capace di by-passare (in parte) una fondamentale funzione mancante.

Ora noi, nella cosiddetta “montagnaterapia”, ci rivolgiamo a persone, come i malati mentali o i cardiopatici o i pazienti oncologici, a cui forse mai si sarebbe potuto pensare nella veste di escursionisti, arrampicatori, alpinisti: proponendo loro, almeno per il tempo di svolgimento delle sessioni, una sorta di “identità vicaria” capace di facilitare, anche qui, un by-pass prima di tutto culturale.
Come tutti sanno, la montagna è tradizionalmente offerta ai “sani” (escludendo i benefici terapeutici dei centri cosiddetti climatici per le patologie respiratorie). L’agonismo degli exploits sportivi e i miti eroici della storia dell’alpinismo ci potrebbero portare lontani dall’humanitas o dalla pietas che sono cornici di fondo del nostro approccio terapeutico. Essi infatti hanno contribuito a costruire nel tempo una immagine della montagna forse troppo legata ad una visione narcisistica od al raggiungimento di obbiettivi estremamente impegnativi.
Nel nostro caso gli obbiettivi sono ampiamente raggiungibili e sono valutati principalmente in chiave clinica e terapeutica.

Ragioneremo perciò sulla montagnaterapia utilizzando, come orientamento, alcune tracce che considero importanti.

Iniziamo dal discorso sul tempo.
L’esperienza della montagna ci ha portato alla consapevolezza della importanza di una relazione terapeutica e riabilitativa con una temporalità concretamente esperita, e quindi sofferta, attesa, scandita, temuta…; questa relazione a sua volta può portare ad un vissuto di maggiore vicinanza ed intimità con se stessi, o, all’opposto di fuga difensiva in quel luogo interno, dove il tempo, a volte, sembra scorrere diversamente che nel mondo esterno. Lì abbiamo la possibilità di percepire meglio la nostra esistenza, per vie non solo psichiche ma emozionali.
Definiamo quel luogo (a volte mancante) come la sede della consapevolezza.
Esso può prendere forma e spazio a partire dall’esperienza con gli altri in montagna. La consapevolezza di sé, delle proprie potenzialità e limiti, delle proprie paure, rappresenta infatti un nostro obbiettivo psico-terapeutico e riabilitativo, con forti valenze socio-educative.
C’è da dire inoltre che in montagna la dimensione del tempo può essere esperita in molti aspetti che viceversa rimarrebbero contratti all’interno di un sé difeso e sofferente.
Per questo appare importantissimo il confronto, mediato dagli operatori e dal gruppo, tra il tempo percepito, il tempo cronologico e quello metereologico. Esiste infatti per ogni malato la possibilità di “fuggire” in un vissuto estremamente modificato della scansione temporale; dilatandola o contraendola artificialmente fino a paralizzarla nell’esperienza psicotica.
Una tale difesa si può infatti determinare di fronte all’angoscia generata da alcune situazioni o percezioni o pensieri o memorie che si riattivano; questo avverrebbe per ogni tipo di patologia.
Per alcuni nostri assistiti la relazione con un tempo nuovamente ritmato a partire da esperienze semplici (come il raggiungere una vetta e far ritorno al rifugio o osservare il depositarsi della neve sul sentiero o attendere al campo base il ritorno dei compagni) rappresenta la possibilità stessa di sentirsi vivi; di esserci; di sperimentare dei nuovi “investimenti oggettuali” (direbbero gli psicoanalisti), di sentire il corpo.

Proseguendo nel nostro ragionamento incrociamo ora il tema dell’ascesa
Ascendere fisicamente, ma ritrovarsi anche a guardare, e forse a ragionare, da una prospettiva più elevata. Tutto ciò appare come trasformativo dei nostri equilibri precedenti. Ascendere può significare anche progredire nel percorso della salute e della autonomia, confinando sempre più la cosiddetta malattia in un angolo del sé. Ascendere può infine rappresentare un innalzamento di piano che ci rende capaci di lasciare in basso qualcosa di ingombrante e pesante; qualcosa da cui separarsi attraverso una tonicità muscolare e psicologica che sostiene, riconsegnando una autonomia nella dinamica del sé . Sono solo accenni che possono essere ripresi.

Salute e malattia: ecco un binomio inscindibile.
E’ come se la prima condizione per essere mantenuta esige la quotidiana presenza di una sorta di “pressione” vitale connessa alla nostra esistenza, cioè al nostro organismo bio-psico-sociale. Tutti sappiamo come in meteorologia il costruirsi progressivo di un campo di alta pressione tenda ad allontanare gli ammassi nuvolosi e le perturbazioni.
Dalla mia esperienza clinica ho visto come la malattia prenda piede e si mantenga (nell’organismo) soprattutto per una riduzione di energia psicofisiologica. Questa “foratura” e fuoriuscita di vitalità (come in una camera d’aria che perde), dopo un po’ di tempo, aprirebbe il campo allo strutturarsi di differenti patologie (per l’individuo ma anche per un gruppo).
Credo allora che sarebbe più esatto parlare di salute o assenza della salute (che noi impropriamente definiamo “malattia”). E più economico ed efficace lavorare sul mantenimento o recupero di questa energia vitale anche in presenza di evidenti patologie. Proponiamo allora una corretta identificazione e orientamento delle energie residue, volte a costituire, ricostituire o riparare, una migliore condizione di benessere del sé.

Ragioniamo ora sulla dimensione dello spazio.
La montagnaterapia propone, per i progetti di cura e riabilitazione, di utilizzare spazi non tradizionalmente deputati a ciò, nella convinzione che l’ambiente determini fortemente l’esperienza che lì potrà essere costruita.
Lo spazio naturale caratteristico della montagna, che si modifica con il variare della luce, della temperatura, della quota, della presenza di altre persone, teme nei fatti una minore “trasformazione psicotica”. Un fenomeno che in psichiatria ha a che fare con la ripetitiva frequentazione degli ambienti diurni o residenziali, e che porta a fenomeni di cronicizzazione e devitalizzazione del setting stesso di lavoro.
Anche lo strumento del campo base ad esempio che rappresenta, come l’omonimo luogo usato dalle spedizioni alpinistiche, un posto sicuro impiantato dal gruppo, a cui giungere per poi ripartire o far ritorno, ben ci fa capire la sottolineatura e l’uso che noi facciamo degli spazi e dei luoghi coerentemente con gli obbiettivi clinici attesi. In questo caso si tratta principalmente di un allenamento all’unificazione e alla separazione nel gruppo, alla stimolazione, all’esperienza del limite e alla possibilità di ritrovarsi.
In montagna infine lo spazio viene misurato soprattutto in verticale. Questo spesso “confonde” il modo consueto di misurare il movimento (in orizzontale) che i pazienti, soprattutto cardiologici, hanno. E sappiamo come la presenza di una dinamica psicofisica, e non di un agito, rappresenti per ognuno di noi una delle principali espressioni della salute (e oggi si fa un gran parlare delle patologie da assenza pressoché completa del movimento).

Spostiamo ora il ragionamento sul concetto di relazione e sul gruppo.
Sono questi i fondamenti di ogni intervento clinico e psicoterapeutico. L’esperienza del gruppo poi attiva profonde e spesso sopite dinamiche psicosomatiche; essendo noi tutti, “sani e malati”, costituiti da differenti parti che premono per entrare in contatto e per dialogare, o si mantengono divise, dando forma e carattere al sé.
Anche in questo caso la montagnaterapia ha inserito queste categorie cliniche nel contesto e nell’esperienza della montagna. E’ immediato pensare ad esempio alle implicazioni psicologiche che riveste la relazione con la Guida Alpina, esperto della montagna e del comportamento in quell’ambiente; capace di un rispecchiamento interpersonale orientato a comportamenti competenti; ma fortunatamente incapace di seguire il paziente nei meandri delle paure psicotiche. La dove, nell’esperienza della malattia, la contrattura o la scissione traumatica prendono il posto dell’apprendimento dall’esperienza.
Un simile ragionamento lo possiamo estendere anche al fondamentale strumento del gruppo; un gruppo che sostiene, incoraggia (ad esempio a salire una parete), riconosce pubblicamente (il fallimento od il successo), rassicura, nasconde. Similmente a come l’individuo tratta inconsciamente le differenti parti di sé: ora in conflitto, ora in cooperazione, ora scisse. Il gruppo poi costruisce una storia che lascia alcune tracce visibili esterne (le foto e i video), ma anche molte memorie interne capaci di opporsi alla discontinuità nella narrazione del sé.

Potremmo andare avanti nel ragionamento ma credo di aver fatto comprendere il senso del nostro approccio, la filosofia che ci guida.

Rimane da dire che in Italia differenti Gruppi di Lavoro che, senza inizialmente confrontarsi, sono progressivamente giunti alle stesse scoperte e ad una comune teorizzazione, hanno da tempo iniziato ad incontrarsi.
Da questi progetti si è via via sentita l’esigenza di poter estendere il modello di intervento anche ad altri ambiti sanitari e non solo alla Salute Mentale. Ecco allora le esperienza già realizzate con i malati cardiologici, quelle da realizzare con i pazienti diabetici, oncologici e chissà con quanti altri.
A titolo di esempio possiamo dire che negli ultimi tre anni a Roma, nell’Ospedale Santo Spirito della ASL RME, all’interno della Cardiologia Riabilitativa, stiamo sperimentando la montagnaterapia per quei pazienti che hanno avuto un infarto o sono stati operati al cuore. Il senso è quello di ribaltare la prospettiva di non poter fare più nulla messi “sotto vetro” nella temuta esperienza quotidiana; di riabilitare il rapporto e la fiducia in una relazione con le varie parti del corpo e con l’ambiente naturale (mediata dal gruppo).
Anche in questo caso è la montagna ad avvicinarsi a loro, attraverso il lavoro degli esperti e dei facilitatori.
I dati della letteratura scientifica ci confortano sull’estendere alcuni limiti alla quota, o all’esercizio fisico, tradizionalmente imposti a questa categoria di malati (sempre con le dovute eccezioni).
Questa sperimentazione ci permette anche di lavorare fianco a fianco con i colleghi cardiologi o infermieri. Una tale integrazione professionale rassicura i pazienti che il loro organismo non è trattato come separabile tra mente - corpo - relazioni - emozioni; tra esperienza ospedaliera, o del centro psichiatrico, e vita esterna caratterizzata anche da un tempo libero o sociale.

La Sanità Pubblica e gli Enti coinvolti possono in questi casi fare grandi passi avanti (impensabili nel privato), e creare sinergie anche con Soggetti istituzionali apparentemente lontani.

Eccoci allora giunti dopo una seppur limitata esplorazione metaforica dei versanti di questa montagna alle nostre conclusioni.
Un primo percorso riconoscibile, in questi ultimi sei anni in Italia, è stato dunque fatto. Ora siamo chiamati a passare per così dire dall’esplorazione orizzontale e quella verticale: cioè a cimentarci con la parete vera e propria, le difficoltà di mantenere una rete e la formazione, e con la linea di salita migliore verso la cima, il metodo, gli strumenti da portare con noi e la scelta dei compagni di cordata. Non dimenticando infine i “pericoli oggettivi”: rappresentati dalle fughe in avanti, dall’incoerenza dei progetti, dalla mancanza di una adeguata valutazione e riflessione sull’esperienza o dall’esaurimento della spinta movimentistica che ci ha accompagnato fino ad ora in Italia.
Il Club Alpino Italiano, insieme alle Aziende Sanitarie Locali e le Aziende Ospedaliere, sono i nostri partners più importanti; per alcuni il C.A.I. ha rappresentato una radice stessa della montagnaterapia, che altrimenti forse non sarebbe neppure nata.

Mi auguro che sapremo lavorare bene insieme e mettere in rete Soggetti Istituzionali diversi, Territorio ed Enti Locali; e sensibilizzare le Amministrazioni e la Politica per poter constatare un giorno che la montagna “è stata salita” da persone che attraverso la via hanno trovato, o ritrovato, un orientamento vitale e una più estesa capacità di sentire pensare e relazionarsi con il mondo.
Grazie a tutti per l’attenzione!