ESCURSIONI
E PERCORSI IN MONTAGNA E NELLA VITA
L'esperienza del Gruppo Montagna nel CSM di Viale Morandi
di Vincenzo F. Scala e Nicola G. De Toma
Nell’orizzonte operativo di un CSM l’attività
in montagna si inserisce nel capitolo di quelle iniziative a cui,
impropriamente, si fa riferimento con il termine
di “attività riabilitative”.
Alla filosofia che governa questo capitolo dovremo, allora, fare
riferimento per parlare del senso e del valore che si può
riconoscere al percorso che, da un luogo sanitario, vincolato e
vincolante in riferimento alla sua funzione, conduce ad un altro
luogo, affrancato da vincoli pre-costituiti e dove lo “stare”
e lo “stare insieme” devono essere ri-fondati:
la montagna, appunto.
Nel proporre, alle persone che frequentano i CSM, attività
riabilitative, gli operatori cercano di produrre qualcosa che, in
qualche modo, non ritengono possibile raggiungere soltanto con gli
strumenti tradizionali di cura.
Si avverte con sempre maggio chiarezza che i luoghi e i metodi tradizionalmente
deputati alla cura e all’assistenza non sono, in qualche modo,
sufficienti a produrre salute. Da qui la ricerca e l’utilizzo
di strumenti e modalità nuove.
Ma che cosa viene proposto in sostanza?
Intanto una dimensione di appartenenza.
Una possibilità di appartenenza ad un gruppo, ad una comunità
che si costituisce in quanto tale proprio in riferimento a quella
specifica attività per la quale tutti i membri esercitano
il loro interesse (ci si trova assieme perché a ciascuno
interessa sperimentarsi in quello sport, in quella pratica ecc.).
E così andare in montagna può essere l’intento
che accomuna, avvicina, rende simili e fa essere possibili interlocutori
tra loro, i membri di quel certo gruppo.
Ma, se l’intento di andare in montagna diventa il fattore
decisivo che fa esistere quel gruppo, questo fattore consente anche
una comunanza ideale (e non solo ideale) con l’insieme di
tutti gli uomini che condividono quell’interesse e si dedicano
a quella pratica. Dico “una comunanza non solo ideale”,
pensando alle giornate che abbiamo realizzato nel corso di questo
anno di lavoro e che hanno visto la partecipazione di diversi gruppi
attivi in questo settore. O penso anche alla scelta di associarsi
al CAI e all’Azimut nel caso del nostro gruppo.). Naturalmente
lo stesso potrebbe dirsi per il calcio, o per la vela o per tante
altre attività.
Quanto sia rilevante questa dimensione (dell’appartenenza
ad un gruppo, ad una comunità, più in generale, al
mondo degli uomini) lo si capisce se si guardano le esperienze di
vita delle persone che sollecitiamo alle iniziative di cui stiamo
parlando.
Sono i percorsi di vita di uomini e donne che per la dinamica della
malattia, e anche per gli effetti che questa produce nel contesto
sociale, intrattengono un rapporto di lontananza e distacco dal
mondo in cui pur si trovano e che vivono una condizione contrassegnata
da scarsità di scambi interpersonali e da chiusura entro
orizzonti ristretti… drammaticamente e pericolosamente sempre
più ristretti (sappiamo che il ritiro e l’isolamento
costituiscono un fattore di rischio con riferimento alla possibilità
di mantenere una condizione di equilibrio mentale).
Sono i percorsi di vita di persone che hanno via via reciso rapporti
e legami di interesse per gli uomini e per le forme dell’agire
umano…, ma per le quali una scintilla di desiderio si può
ancora accendere.
Penso, per esempio, a Mauro, figlio unico di
una famiglia che vive in una condizione di indigenza economica e
nella necessità di assistenza alla madre, seguita presso
il CSM da molti anni per una forma di schizofrenia.
Ha 27 anni quando i genitori ci segnalano la sua progressiva chiusura,
l’abbandono dei legami con gli amici, la tendenza a trascorrere
le giornate chiuso in casa, molto spesso in bagno. Accetta di incontrarci
a casa, ma non intende venire al Servizio, né ritiene che
ci sia necessità di continuare a vederci dal momento che,
dal suo punto di vista, non ci sono problemi, argomenti di cui occuparsi.
Ci racconta che nelle lunghe giornate che trascorre in casa guarda
la televisione, in particolare le partite di calcio; in passato
infatti giocava con gli amici. Quando gli presentiamo l’attività
di calcio, da poco avviata presso il CSM, si accende la sua curiosità.
Conveniamo, allora, che potrebbe venire al campo, il giorno dell’allenamento,
magari, intanto, per cominciare ad annusare la situazione, limitandosi
a rimanere sugli spalti. Accompagnato dal padre e condotto dalla
sua antica passione, viene, il giorno stabilito; torna all’allenamento
successivo e decide di scendere in campo. In seguito, dal calcio,
allargherà il suo orizzonte di azione prendendo parte ai
soggiorni estivi, e alle uscite in montagna, impegnandosi in un
corso di formazione professionale e, ultimamente, in un tirocinio
di lavoro.
Val la pena notare che, nel caso ora ricordato,
l’attività proposta costituisce la chiave di accesso
ad una situazione che, al momento in cui entra in contatto con il
Servizio, mostra molti dei segni comunemente considerati indicatori
di rischio per sviluppi psicopatologici (la familiarità per
condizioni psicopatologiche, il ritiro sociale, la perdita di interessi,
la conflittualità nelle relazioni familiari, la negazione
di ogni difficoltà e il conseguente rifiuto di proposte di
cura).
O penso a Francesco, al quale, in diversi momenti
del suo percorso presso il Servizio, ho proposto di incontrarci
per regolari colloqui. Ma ogni volta, dopo pochi incontri,…
ritardi clamorosi, appuntamenti disdetti, colloqui saltati. E quando
finalmente si riusciva ad incontrarci,… la sua evidente frustrazione
per il fatto di trovarsi in una situazione poco voluta e mal tollerata;
e la mia frustrazione, per il fatto di trovarmi davanti un interlocutore
con cui non potevo realizzare granché di utile. Diversa l’aria
quando gli ho proposto di partecipare alle uscite escursionistiche.
In questo caso la sua adesione è convinta ed entusiastica.
Questo non ci mette al riparo dallo scontro con gli aspetti della
sua caratterialità che, anzi, hanno modo di dispiegarsi nelle
circostanze in cui ci troviamo via via impegnati. Ma consente anche
di interloquire utilmente, almeno qualche volta, con quegli aspetti,
come proverò a dire più avanti.
Ecco allora che questo tipo di esperienze si costituisce
come un modo di ricreare e proporre un mondo possibile;
il gruppo di attività si può leggere come metafora
del mondo degli uomini.
E l’attività specifica in cui il gruppo si
impegna è quella parte dell’agire umano che i membri
del gruppo sentono, in un certo momento, di poter investire di attenzione,
desiderio, interesse. Per alcuni sarà il calcio,
per altri l’escursionismo, per altri ancora le visite a città
d’arte ecc. Da qui l’opportunità che una struttura,
CSM o CD o altro che sia, possa proporre una gamma di possibilità
entro cui ciascuno trovi quella a cui sente di potersi avvicinare,
mentre, in un certo momento della sua vita, può sentire che
non gli è possibile accostarsi ad altri ambiti di esperienza.
Abbiamo così introdotto una seconda dimensione rilevante:
la possibilità di riaprire il gioco degli investimenti.
C’è poi un altro aspetto che, vogliamo
sottolineare ed è l’esperienza di transito
tra stati di identità differenti che i partecipanti
possono vivere, entrando e uscendo dal mondo del gruppo; e allontanandosi
e tornando al proprio mondo abituale. Pensiamo alla distanza che
ci può essere tra sentirsi una persona sofferente di disturbi
mentali, isolata, marginalizzata ecc. e, in un altro momento trovarsi
ad essere, magari, un attaccante della squadra delle “Red
Eagles” o un membro di un gruppo di escursionisti che sta
percorrendo un sentiero o un turista che sta partecipando ad una
visita alla Reggia di Caserta o, ancora, un componente dell’equipaggio
di una barca a vela che fa rotta per una certa destinazione ecc.
Questo transito tra differenti stati di identità è
un fattore potente e anche potenzialmente destabilizzante e comporta
la necessità di continuità nell’esperienza e
la possibilità di ripetere il movimento di ingresso/uscita
dal mondo del gruppo. La ripetizione costituisce un fattore di possibile
elaborazione dell’esperienza, che, in questo modo può
essere ampliata, arricchita, declinata, colta nei suoi differenti
aspetti, in una parola elaborata (esempio dei primi soggiorni estivi
che costituivano esperienze forti, ma isolate).
Alla fine di una escursione, per esempio, è importante poter
pensare che se ne faranno ancora altre, che ci si ritroverà.
Con riferimento alla nostra esperienza , l’impossibilità
di mantenere una frequenza opportuna delle uscite escursionistiche,
ci ha indotto a prevedere altri momenti di incontro che costituiscono
un anello intermedio tra l’esperienza dell’escursione
e la quotidianità.
Ancora riguardo all’aspetto del “transito”, si
può individuare una funzione specifica degli operatori; nel
fare in modo che ci sia esperienza di passaggio tra stati di identità,
ma non di scissione e, quindi, mantenendo in collegamento i diversi
momenti (questo può avvenire anche semplicemente scambiando
qualche parola con i membri del gruppo, sulle loro situazioni di
vita abituali, durante le attività, per esempio quando si
cammina lungo un sentiero). E’ sicuramente utile a questo
fine, che gli operatori conoscano abbastanza bene le vicende personali
dei pazienti che seguono nei gruppi di attività, anche mantenendo
contatti con gli altri operatori di riferimento. Se l’operatore
può, nella sua mente, integrare diversi aspetti dell’esperienza
dell’altro, diventerà veicolo per la restituzione all’altro
di un’immagine integrata di sé.
Un’altra dimensione interessante è
quella della prospettiva di sviluppo in cui il gruppo e ciascun
membro può sentire di collocarsi con riferimento all’attività
specifica che si è intrapresa. Praticare quella certa attività
consente l’esperienza del procedere lungo un percorso di crescita
e fa vivere il sentimento che si può migliorare, che si sta
migliorando, che si ottengono i risultati desiderati, che c’è
aumento delle capacità ecc..
L’esperienza di poter progredire nell’attività
specifica è una metafora della possibile evoluzione personale;
suggerisce l’indicazione e sostiene la speranza che le cose,
nella vita, non sono ferme ed immutabili, ma ci possono essere margini
di trasformazione e sviluppo.
Qui si individua un’altra funzione degli operatori. Sta a
loro, infatti, introdurre e far vivere una prospettiva di sviluppo
e questo è possibile se loro stessi (gli operatori) hanno
interesse e passione per l’attività che propongono,
se la vivono dal di dentro e ne colgono aspetti differenziati, articolazioni,
dimensioni meno evidenti ecc. (esempio del colore della neve per
noi e per gli Esquimesi). Sarebbe poco produttiva l’azione
di operatori che si sentissero mandati a fare qualcosa che non hanno
scelto e per cui non nutrono interesse, curiosità, desiderio,
qualcosa, insomma, che non sentono di poter investire di interesse
e passione. (Con riferimento alla pratica dell’escursionismo,
per esempio, l’esperienza del progredire lungo un itinerario
di sviluppo si può realizzare in molti modi: imparando a
conoscere e scegliere gli equipaggiamenti, imparando a camminare
su terreni impervi, migliorando la capacità di dosare le
energie ecc. ).
Infine la dimensione, ovvia, ma importante,
della relazionalità che necessariamente si dispiega
nel “fare insieme” e implica momenti di scambio che
possono assumere tutte le connotazioni e le sfumature delle interazioni
tra umani, contenendo anche potenzialità evolutive. Ma proviamo
a dirlo, direttamente, attraverso il racconto di un breve, recente,
episodio.
Ciò che maggiormente caratterizza Francesco
è una sorta di ostinata e, quasi infantile necessità
di contrapporsi all’interlocutore e sottrarsi ai vincoli che
governano i contesti, dovendo sempre, in qualche modo, forzarne,
almeno un po’, le regole accettate e condivise. Questa sua
radicata attitudine si traduce, nel corso delle uscite escursionistiche,
in comportamenti che gli sono tipici, come pretendere di camminare
alla testa del gruppo, o restare indietro e attardarsi, o deviare
dal percorso allontanandosi per raggiungere un punto secondo lui
interessante (meglio se, a nostro avviso, potenzialmente pericoloso).
Quella mattina dovevamo incontrarci con altri gruppi per una escursione
nel Parco dei Monti Lucretili e, prima di recarci al punto di ritrovo
convenuto, si era fatta una sosta in un bar.
Usciamo, quindi, dal locale per dirigerci, a piedi, al Centro Visite
del Parco, poco lontano.
“Allora vediamo! Siamo tutti?”
“ Si,..no! Manca qualcuno”.
“Ma, chi manca”?
“Manca…Francesco!”
“Dov’è? Chi ha visto Francesco?”
“E’ ancora al bar che sta continuando la sua colazione!
Dice qualcuno”
“Come al solito!” Penso tra me.
“Va bene; voi andate avanti ed io rimango ad aspettarlo!”
Resto davanti al locale; decido di non entrare a sollecitarlo, siamo
in anticipo, non c’è fretta e, d’altra parte,
mi dico, anche se uno facesse un’uscita con un piccolo manipolo
dei suoi amici più fidati, qualche contrarietà dovrebbe
comunque aspettarsela.
Abbozzando queste considerazioni e aiutato dal panorama che si ha
da quel luogo elevato, in una limpida mattina d’inverno, mi
dispongo ad un’attesa abbastanza serena.
Ma,…eccolo che sta uscendo.
“Ah, ma lei è rimasto ad aspettare me?!”
“Si” dico io. “Tutti gli altri sono andati avanti;
adesso li raggiungiamo”
“Ma io so dove si deve andare!” dichiara, mentre parte,
a passo spedito, nella direzione giusta, senza neanche aspettarmi.
“Eh no!” dico tra me. “Ma com’è?
Io ti ho atteso finora e tu pretendi di andartene da solo, facendo
fare a me la parte del ritardatario?! E poi io sono l’operatore!”
Accelero, dunque, il passo e mi porto affianco. Lui, vedendomi lì,
aumenta il ritmo dell’andatura; ma anch’io lo faccio,
per niente disposto a cedere. Fino al limite di quanto è
possibile accelerare camminando. Nessuno dei due, infatti, vuole
mettersi a correre, che sarebbe una troppo esplicita ammissione
del proprio intento.
La situazione assume rapidamente il contorno paradossale di una
sfida non dichiarata in cui due curiosi soggetti sgambettano, affannosamente,
lungo una strada di montagna in salita.
Ad un certo punto, sempre camminando, mi volto verso di lui, lui
si volta verso di me e…scoppiamo a ridere consapevoli dell’assurdità
della situazione che abbiamo messo in scena.
“Ah, il dottor Scala che ride!” Dice Francesco.
Ecco, è come se avessimo detto: “Possiamo avvitarci
in un crescendo di reciproche pretese che ci porta a posizioni sempre
più esasperate e rigide; ma possiamo anche tirarci fuori
da questa situazione, guardarla con ironia, riderne e rapportarci
tra noi in un modo diverso e, probabilmente, più divertente.
Abbiamo fatto, così, riferimento ad alcune dimensioni, secondo
noi rilevanti, che caratterizzano o possono caratterizzare, l’esperienza
della montagna, quando riferita all’ambito della salute mentale.
Si tratta di dimensioni non immediatamente evidenti e la
cui comprensione richiede uno sforzo di contestualizzazione ed esplicitazione.
Proviamo a dirlo con un aneddoto, questa volta non tratto dalla
nostra esperienza.
Nella canicola di una giornata d’estate,
un re decide di fare una passeggiata nelle campagne del suo regno.
Si avvia, quindi, in carrozza, con la scorta, per una strada polverosa
e assolata che si snoda tra le colline. Dopo un breve tragitto,
sul lato della strada, vede un uomo; è l’immagine della
fatica: gronda sudore, è coperto di polvere e, con una mazza
batte su un masso. Il re fa fermare la scorta, si affaccia dalla
carrozza e, rivolgendosi all’uomo gli chiede: ”Buon
uomo, cosa stai facendo?”. “Spacco le pietre!”
è la risposta dell’uomo.
Il gruppo riparte e, superata una piccola collina, di nuovo si presenta
la vista di un altro uomo, del tutto simile al primo. Di nuovo il
re fa fermare la scorta e di nuovo rivolge la domanda di prima all’uomo
che risponde: “Io, maestà, lavoro per mantenere la
mia famiglia”.
Il re dà ordine di ripartire e, dopo un altro breve tratto
di strada, superata una curva, un terzo uomo, del tutto simile agli
altri due, si presenta alla vista del gruppo. Pure lui sudato, impolverato,
sotto il sole cocente, batte, con una mazza, su un sasso. “Buon
uomo, cosa stai facendo?” è, ancora, la domanda del
re. “Io, Sire, costruisco cattedrali!” risponde l’altro.
“Ma, quei tre uomini facevano o non facevano
la stessa cosa?” Ci potremmo chiedere.
E potremmo forse convenire che il senso dell’azione non è
desumibile dalla sua forma esteriore. Lo si comprende solo in riferimento
alla prospettiva mentale entro cui l’attore colloca il suo
agire. Gli occhi presentano al re, per tre volte la stessa scena;
ma interrogando i tre uomini, il re scorge prospettive tutt’affatto
diverse.
Gli operatori della salute mentale, e probabilmente anche degli
altri ambiti di lavoro, hanno, quindi, la necessità e il
compito di rendere visibili lo spessore di senso e il valore che
possono essere contenuti nella pratica dell’escursionismo
in montagna, con riferimento ai contesti in cui si attua.
Questa è anche, riteniamo, la ragion d’essere della
nostra stessa presenza qui, oggi.
Osservazioni successive
A nostro avviso le iniziative che utilizzano attività
sportive o ricreative come terreno di scambio e di relazione orientati
alla promozione della salute e all’evoluzione delle
condizioni personali dei partecipanti, se ben organizzate
e condotte con attenzione, costituiscono, a pieno titolo, nuovi
strumenti per la Salute Mentale. Strumenti che è
possibile vedere in un rapporto di continuità con quelli
tradizionalmente utilizzati ed assieme ai quali si configurano come
elementi di un repertorio di risorse a disposizione degli
operatori, al cui interno scegliere, di volta in volta,
quelli che risultano più opportuni o che fanno prevedere
maggiori probabilità di efficacia.
In questa prospettiva ci sembra poco utile costringere le prassi
entro protocolli troppo rigidi e riteniamo funzionale dar corso
a interventi che assumono forma e articolazione, di volta
in volta, in rapporto a contingenze di ordine clinico.
Con riferimento allo sviluppo di un programma di
ricerca da proporre in ambito SIEP, si potrebbe forse pensare, come
primo passo, di trovare indicatori che documentino la presenza delle
quattro dimensioni descritte (vissuto di appartenenza ad un contesto
comunitario in senso lato; recupero della possibilità di
investimento; vissuto di sviluppo ed evoluzione; possibilità
di utilizzo evolutivo della relazionalità) (più facile
il discorso per le prime tre). E, contestualmente, avendo documentato
che queste dimensioni sono presenti e si incrementano, nelle esperienze
in questione, trovare indicatori di qualità della vita e
di qualità del rapporto complessivo con il Servizio.
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