|    Seminario 
              di Studio “CURARE A CIELO APERTO” 
              Roma sede del Club Alpino Italiano, 11 giugno 2001 
            Giulio 
              Scoppola 
              Introduzione alla Montagnaterapia 
            Cosa possiamo intendere per "montagnaterapia"? 
            Se ne parlava già esplicitamente due anni 
              fa quando un giornalista (Matteo Serafin) nel n° 40/99 di "Famiglia 
              Cristiana" scrisse un articolo dal titolo: "quando la 
              montagna diventa un aiuto alla vita", sintetizzando le grandi 
              speranze suscitate da alcune esperienze pilota, riferite ad un convegno 
              di operatori sanitari, guide alpine e giornalisti specializzati 
              a Trento. L'articolo ribaltava uno stereotipo frequentemente utilizzato 
              dai media della "montagna che uccide", nella "montagna 
              che aiuta a vivere" e che cura. 
               
              Alcuni anni prima, nel 1993 presso il Centro Diurno di via S.Godenzo 
              a Roma veniva realizzato un programma riabilitativo chiamato "Corpo-Mente-Ambiente" 
              ( accompagnato da un video di presentazione) in cui si mostravano 
              le attività di un gruppo di utenti psichiatrici, e ci si 
              riferiva ai presupposti teorici di un trattamento a carattere psicoterapeutico 
              che si svolgeva in palestra e successivamente in piscina e in montagna, 
              durante l'arco di un anno e con frequenza settimanale. L'anno successivo 
              veniva realizzato un secondo video che mostrava il gruppo dei pazienti 
              e degli operatori impegnato nella verbalizzazione delle memorie 
              senso-percettive scaturite dalle attività, a partire dalla 
              videoregistrazione delle esperienze organizzate.  
               
              Prendendo spunto da altre iniziative italiane utilizzammo infatti 
              la tecnica della "videoconfrontazione" in campo psichiatrico 
              (D.Manghi, 1989-90) che stimola quel processo di progressiva acquisizione 
              psicologica di una identità psicofisica attraverso l'uso 
              delle immagini video: il corpo dell'individuo in azione viene videoripreso 
              ed il soggetto, posto successivamente di fronte al materiale registrato, 
              è stimolato ad accoppiare la personale descrizione delle 
              sensazioni provate, con il ricordo delle emozioni corrispondenti 
              originatesi in un preciso momento (ad esempio il passaggio su un 
              temuto sentiero alpinistico o il raggiungimento di una vetta). 
               
              Ancora prima nel 1992 (il 26/11/92) era apparso un articolo sul 
              "Corriere della Sera" a firma Ulderico Munzi dal titolo: 
              "malati di mente alpinisti per guarire", in cui veniva 
              pubblicizzata l'esperienza del Centro Ospedaliero di "Bel Air" 
              a Charleville-Mézières, località delle Ardenne 
              in Francia, dove, testualmente: "a un semplice e coraggioso 
              infermiere" nel 1984 venne l'idea di "strappare i suoi 
              malati, tra i quali c'erano alcuni schizofrenici, da quei padiglioni 
              di ospedale dove vegetavano da anni annichiliti dai tranquillanti 
              e dal rito manicomiale", portandoli a 2500 metri di quota ed 
              oltre, dove "l'umanità riaffiorava davanti al pericolo 
              ed all'imprevisto". Appare a noi oggi evidente come il lavoro 
              terapeutico successivo dovesse necessariamente concentrarsi su quelle 
              tracce riaffioranti di presenza mentale emozionale e fisica al mondo, 
              da sostenere elaborare proteggere.  
              Vorrei, a questo proposito, citare Sartre che nel 1968 diceva che 
              "il criterio di distinzione tra illusione e realtà è 
              un dubbio da cui può essere percorso solo un io decorporeizzato, 
              che non abita il mondo; infatti posso interrogarmi sulla differenza 
              che separa il reale dall'immaginario solo perché abitando 
              il mondo già mi sono fatta una esperienza di queste due dimensioni". 
               
               
              Ecco il punto: cosa può tornare ad essere esperito come "mondo" 
              dall'individuo psicotico? Probabilmente solo un mondo fortemente 
              caratterizzato in senso fisico, facilmente riconoscibile (cioè 
              con scarse ambiguità) e con aspetti di scarsa o nulla antropizzazione, 
              che annulli o renda difficile (almeno all'inizio del processo) il 
              ricorso alle patologiche proiezioni difensive e paralizzanti, originatesi 
              dalle memorie traumatiche primitive.  
              Alla genesi di questo presunto trauma sappiamo, dalle storie cliniche, 
              che hanno contribuito persone affettivamente importantissime per 
              il malato; ciò comportando l'allontanamento sistematico difensivo 
              (post-traumatico ?) da successive relazioni affettive. Spesso con 
              una esistenziale passività e paralizzazione della energia 
              vitale in ambienti costruiti, controllati, o vissuti permanentemente 
              dall'uomo. Una esperienza di "discordanza, incoerenza ideo-verbale, 
              ambivalenza autismo, idee deliranti, profondi disturbi affettivi 
              nel senso del distacco e della stranezza dei sentimenti, disturbi 
              che hanno la tendenza ad evolvere verso un deficit ed una dissociazione 
              della personalità" (Ey-Bernard-Brisset, 1979). 
               
              Molte altre esperienze cosidette riabilitative sono state realizzate 
              in questi anni con l'aiuto della montagna, ed alcune, come quella 
              tutt'ora in atto della Comunità Terapeutica Montesanto a 
              Roma iniziata nell'agosto del 1997, dotate di continuità, 
              verifica sistematica e organicità davvero incoraggianti. 
               
              Non si può non ritenere che già in epoche precedenti 
              gruppi di operatori socio-sanitari, con l'accompagnamento di persone 
              esperte, si legassero con una corda reale e psicologica a gruppi 
              di pazienti per realizzare progetti in cui la montagna avrebbe via 
              via rappresentato ambiente e strumento di cura, luogo naturale in 
              cui poter riarticolare movimenti fisici e psichici; parte del mondo 
              facilmente riconoscibile dove poter atterrare o ri-atterrare in 
              modo pilotato e morbido. Come dice Sartre: "frequentando il 
              mondo, il corpo non è mai percorso dal dubbio che la sua 
              percezione possa essere una illusione rispetto a qualche presunta 
              verità in sé, il mondo non è ciò che 
              penso ma ciò che vivo, che abito" (J.P.Sartre, 1968). 
               
              Ma come abitare o ri-abitare il mondo? E quale parte del mondo? 
              Il mondo della salute mentale? O si può lavorare per una 
              riabilitazione o rieducazione od educazione che permetta di ri-abitare 
              un mondo più esteso sia in senso orizzontale che verticale 
              (e sia in senso psicologico che somatico)? E' non è forse 
              il corpo la prima parte del mondo fisico da abitare? Nello sviluppo 
              dell'essere umano è certamente così! 
            Domande da porsi perché il tipo di cura 
              in psichiatria rappresenta spesso la scelta dell'ambiente in cui 
              si vivrà la propria vita successiva in una sorta di cura 
              interminabile; con quali effetti, ad esempio, sulla autostima? E 
              sulla perdita de capacità cognitive e senso-motorie? 
            Dopo il seminario "Il Monte Analogo, la montagna 
              come sfondo terapeutico e rieducativo" che si è svolto 
              nella sede della Comunità Montesanto nel 1999, e l'incontro 
              di presentazione della interessantissima esperienza di Alberto Rubino 
              e del suo viaggio in Himalaya, l'anno scorso, oggi ospiti del C.A.I. 
              cercheremo di aggiungere ulteriori pietre alla costruzione di un 
              modello teorico che ci possa condurre speriamo a protocolli sufficientemente 
              condivisi, per passere dalle esperienze ai progetti e da questi 
              a risultati clinicamente verificabili. 
              Già qualcosa in tal senso sta avvenendo. 
               
              Credo, in modo un po' provocatorio, che anche la montagnaterapia, 
              nome a cui non segue ancora un condiviso costrutto teorico-metodologico 
              e che ancora non rimanda a protocolli riconosciuti, condivisi e 
              sperimentati, possa trovare posto accanto e in integrazione con 
              altre metodiche cliniche che negli ultimi decenni, o già 
              da molto tempo, popolano l'affollatissima galassia delle terapie, 
              nel campo psicologico psichiatrico o genericamente sociosanitario 
              (come ad esempio la musicoterapia, l'hyppoterapia, l'helioterapia, 
              la thalassoterapia ecc.). 
              All'atto medico-psichiatrico o psicologico-clinico tradizionale 
              come il farmaco, il ricovero, il contenimento, la psicoterapia nelle 
              sue differenti accezioni, verrebbe ad accostarsi quello che potrebbe 
              essere equiparato ad un trattamento coadiuvante; come ad esempio 
              l'invio alle "terme" o al "mare" o in "collina" 
              che veniva prescritto dai medici nel secolo scorso (e ancora oggi) 
              per le patologie respiratorie o dermatologiche, o per l'esaurimento 
              nervoso.  
              Questi trattamenti avevano un denominatore comune: veniva prescritto 
              un cambiamento di ambiente, di aria, di relazioni con tutto quello 
              che ne seguiva…  
              In fondo anche nella frequentazione della montagna il cittadino 
              può ritrovare un simile percorso di separazione e di individuazione. 
              Questo attraverso una serie di significativi riti di passaggio e 
              di entrata in una nuova dimensione culturale ed ambientale, prima 
              ancora che psicologica, e di uscita da quella precedente (la ritualità 
              della preparazione di una salita alpinistica con la preparazione 
              dei materiali, degli abiti adatti, del percorso e dei viveri; il 
              riconoscimento di regole condivise, ad esempio di solidarietà 
              e prudenza ecc., il riconoscimento dei compagni di avventura; l'abbandono 
              di molte cose inessenziali quando non inutili).  
              Paradossalmente nella montagnaterapia potremmo dire che ad una fonte 
              primitiva, ma sempre attiva, di stress cronico interno (il nucleo 
              traumatico, o la parte mancante o fratturata della mente psicotica 
              spesso non più consapevole), viene sovrapposta una esperienza 
              che contiene sicuramente alcuni potenziali stressors sensoriali 
              e psicologici facilmente riconoscibili, da dosare individualmente 
              (pensiamo ad esempio al rischio di scivolare su un sentiero difficile), 
              ma con cui, in modo protetto e mediato, poter venire in contatto; 
              con l'obiettivo di una positiva memorizzazione e ricategorizzazione 
              della esperienza fatta. 
              Nella montagnaterapia, come in altre metodiche a mediazione somatica 
              e ambientale, concetti come corporeità gruppo e gruppalità 
              primitiva, mutuati a partire dalle ricerche sugli stati primitivi 
              del sé (c.f.r. E.Gaddini, Winnicott, Bion, I.Matte Blanco) 
              quando "il funzionamento mentale si caratterizza per la presenza 
              di modalità che sono di tipo gruppale e prevalentemente simmetriche 
              (…) in cui la parte equivale al tutto e non esiste distinzione 
              tra dentro e fuori e tra prima e dopo" (L:Scoppola, 1992), 
              appaiono fondamentali per interpretare il mentale. E questo in tutte 
              quelle patologie in cui si osserva, ai differenti livelli, una interruzione 
              ed una incoerenza del pensiero, del ricordo, della parola, del comportamento, 
              del movimento. Cioè in quelle aree primitive del sé 
              dove mente e corpo iniziano il loro percorso parallelo 
            Mi avvio alla conclusione sottolineando che nel 
              gruppo che si muove in montagna si osserva un riattivarsi di dinamiche 
              emozionali mediate e favorite dalle esigenze e dai condizionamenti 
              imposti dal quel preciso luogo naturale. E questo avviene per ogni 
              individuo o gruppo che vi si esponga.  
              Nella terapia in, e attraverso, la montagna ritroviamo e utilizziamo 
              psicologicamente coppie di dimensioni opposte come: orientamento/disorientamento; 
              vastità/limitatezza spaziali (il fuori/dentro il rifugio); 
              caldo/freddo; fatica/riposo; verticalità/orizzontalità; 
              luce/buio; linee continue sulle quali muoversi (è il caso 
              dei sentieri) e linee spezzate sulle quali si potrà tentare 
              di arrampicarsi per procedere verso una vetta; ma anche cuore che 
              batte veloce/lento, respiro affannato/regolare. 
              Tutte dimensioni ben percepibili e fruibili nell'ambiente montano, 
              da sperimentare con un ritmo capace di attivarle e di metterle in 
              relazione ma con la attenzione a non superare le "dosi"individuali. 
               
              Abbiamo accennato al fatto che la mediazione e quasi l'orientamento 
              nel gruppo e del gruppo permette all'individuo di tentare un orientamento 
              nell'ambiente, ma di questo, spero, tratterà più specificamente 
              il Dr. Correale. Io vorrei proporre che anche il ruolo degli operatori 
              rimanda alla possibilità di un orientamento. Abbiamo sperimentato 
              in numerose esperienze cliniche che una dinamica funzionale agli 
              obbiettivi generali della montagnaterapia debba prevedere ed organizzare 
              la presenza di un operatore esperto, come ad esempio una Guida Alpina 
              o un Istruttore di Alpinismo del C.A.I., che conosce l'ambiente 
              ed il terreno di gioco, e che quindi sa e può prevedere possibilità 
              e limiti della esperienza. L'esperto non deve essere tuttavia a 
              già a conoscenza degli aspetti psicodinamici che riguardano 
              la relazione con individui sofferenti mentalmente, questo per mantenerlo 
              psicologicamente distinto dalle dinamiche, dalla cultura e dal linguaggio 
              che il gruppo ha acquisito nel tempo. 
              Ciò è predisposto per mantenere una sorta di altra 
              polarizzazione (di tipo verticale e con codice "paterno") 
              rispetto ad una per così dire "orizzontale" (a 
              codice "materno"). Il gruppo è invece conosciuto 
              dagli operatori di riferimento (personale specialistico e personale 
              non esperto, in formazione). L'operatore di riferimento si pone 
              come facilitatore di esperienze, di relazioni di processi, partecipando 
              anch'esso in modo diretto alle dinamiche in cui è coinvolto. 
              L'operatore o gli operatori in formazione rappresentano per i pazienti 
              una modalità di presenza psicologica al mondo senza mediazioni 
              o protezioni, ma non indebolita dalla malattia psicotica. Con essa 
              e con essi si attiva un confronto mediato dall'affetto e dalla progressiva 
              conoscenza e solidarietà nel corso delle attività 
              giornaliere o nelle esperienze residenziali. Sono accenni che potremo 
              riprendere quando si parlerà di ciò che cura e ciò 
              che educa, e nel dibattito. 
            Vorrei terminare questa relazione dicendo che proponiamo 
              la montagnaterapia perché i contesti abituali di cura, specialmente 
              nella grande città, non permettono di surrogare e sostituire 
              organicamente le potenzialità intrinseche di una serie di 
              stimoli e occasioni presenti naturalmente nell'ambiente montano. 
               
              Se osserviamo la città e l'ambiente urbanizzato dove lavoriamo, 
              con la quotidiana sovraesposizione a rumori luci e relazioni, tempi 
              contratti non più misurati dai passi che riusciamo a fare, 
              possiamo capire che la montagnaterapia nasce e si appoggia alla 
              naturale necessità dell'uomo, sano prima ancora che malato, 
              di ritrovarsi rispecchiandosi in luoghi naturali. Laddove la complessità 
              e talvolta contradditorietà degli stimoli cede il campo alla 
              limitatezza di alcuni elementi (la vetta, il rifugio, il sentiero) 
              dotati di maggiore intensità evocativa, di una migliore fruibilità, 
              di una temporalità vissuta in modo meno stressante, di una 
              spazialità "vuota" da alcune temute relazioni e 
              da "riempire" con nuove storie e memorie. 
              Da li ripartire per un processo terapeutico che attraverso un possibile 
              nuovo riconoscimento di differenze conduca ad una scelta: probabilmente 
              quella di esserci in luoghi e relazioni nuove e non solo nella già 
              conosciuta dimensione della malattia. Grazie. 
            
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